Era la prediletta di Mozart. Su di essa hanno scritto Lord Byron, Oscar Wilde e Stendhal. E ci hanno disegnato grandi artisti così come è stata utilizzata per edizioni speciali di capolavori letterari o per la riproduzione di capolavori d’arte.
Nei suoi nove secoli di storia conosciuta, la Carta Bambagina si è fatta apprezzare per le sue caratteristiche uniche. E da Amalfi è diventata famosa nel mondo, considerata ancora oggi, a pieno titolo, tra le eccellenze del made in Italy.
E’ del 1231 il documento più antico in carta amalfitana, a firma dell’imperatore Federico II, che proprio con quello ne proibì l’uso per gli atti ufficiali, preferendo la pergamena, perché ritenuta più durevole. Il tempo lo ha smentito, facendo arrivare fino ai nostri giorni esemplari ultrasecolari di Bambagina, che continuò ad essere utilizzata sia per documenti privati sia per tutti gli atti pubblici dagli Stati dell’Italia meridionale in epoca angioina, aragonese, del vicereame e borbonica e dalle istituzioni ecclesiastiche. Intanto, ad Amalfi aumentava il numero delle cartiere, che producevano secondo l’antica tecnica appresa dagli Arabi, i quali, avendola a loro volta mutuata dai Cinesi, la praticavano già dal X secolo. E i naviganti amalfitani, che con gli Arabi avevano all’epoca ampi scambi e frequentazioni nei porti della Sicilia e dell’Egitto, erano stati i primi europei ad imparare i segreti della carta, trasferendoli in patria.
Il cuore della produzione amalfitana era nella Valle dei Mulini, la parte finale della Valle delle Ferriere, proprio sopra la città. Là arrivavano i carichi di stracci o di stoffe bianche di lino, canapa e cotone, in parte importati da Napoli, che venivano tagliati, sfilacciati e messi a bagno a macerare, per essere avviati alla fase della lavorazione fatta con i mulini, azionati dall’acqua del torrente Canneto. I mulini muovevano dei grossi martelli chiodati con i quali la stoffa veniva ridotta in poltiglia, che era poi trasferita in tini rivestiti di maioliche. Nei tini erano calate le forme con bordi di legno e una filigrana centrale di fili di ottone o di bronzo con i marchi dei cartari. Le forme catturavano le parti solide della poltiglia e questa prima versione del foglio veniva posta su un feltro di lana, il “pontone”. Si formava una catasta di fogli umidi alternati ai feltri, che veniva pressata. A quel punto, si separavano i feltri dai fogli, che erano trasferiti negli “spandituri”, stanze con grandi finestre per far circolare l’aria e asciugare naturalmente i fogli di carta, che da lì passavano nella sala dell’”allisciaturo”, per la stiratura finale. Tutto a mano, con una lavorazione lenta e una produzione necessariamente limitata. Almeno fino al ‘700, quando arrivarono ad Amalfi le “macchine olandesi”, dotate di cilindri con le filigrane che aumentarono la produzione, e fu introdotta anche una preasciugatura dei fogli con le caldaie a vapore. A quell’epoca si contavano undici cartiere e il numero continuò a crescere, anche quando la produzione industriale era ormai diffusa in Europa. A mettere fine all’economia della carta ad Amalfi fu l’alluvione del 1954, che distrusse tutte le cartiere tranne tre: quella di Francesco Imperato, che la chiuse e si trasferì a Palermo, quella dei Milano e quella degli Amatruda, che è ancora attiva e tiene viva la tradizione della Carta Bambagina, prodotta artigianalmente foglio per foglio, con un’altissima qualità riconosciuta a livello mondiale.
I Milano, invece, hanno trasformato la loro cartiera nel centro di Amalfi nel Museo della Carta, con i macchinari originali del XIII secolo e la macchina olandese impiantata nel 1745, tutti restaurati e perfettamente funzionanti, per mostrare dal vivo le varie fasi della lavorazione ai visitatori. A completare il museo, un’ampia esposizione di oggetti antichi e prodotti cartacei e una biblioteca specializzata di oltre tremila volumi e documenti.
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