Col fiato sospeso, fino all’ultimo. Tutti in attesa: re Ferdinando, la corte e una folla che si era raccolta per la grande occasione.
«Per la grandiosità dei ponti imponenti, quest’opera gareggia con le strutture romane»
Rudolf Wittkover
Era il 7 maggio 1762 e tutto era pronto per quella che era stata ribattezzata la “prova dell’acqua”. Il sistema era stato attivato e da un momento all’altro si sarebbe saputo se era davvero funzionante. Ma il tempo passava, ormai si trattava di ore. E cominciò a diffondersi la preoccupazione che quell’opera gigantesca, che si era materializzata in tutta la sua imponenza e bellezza fin dall’arrivo nella verde valle di Maddaloni, non avesse raggiunto l’obiettivo per il quale era stata costruita. Ma prima che il dubbio potesse avere il sopravvento, l’acqua sgorgò gagliarda dalla nuova conduttura, salutata da un applauso liberatorio. Rivolto all’artefice di quella meraviglia, l’architetto Luigi Vanvitelli, che ottenne anche un pubblico riconoscimento da parte del sovrano, oltre ad una gratifica di mille ducati. La prima prova, dunque, era stata superata.
Ci aveva creduto, Vanvitelli, fin da quando, come progettista e direttore dei lavori della nuova reggia, aveva ricevuto da re Carlo di Borbone l’incarico di trovare l’acqua per alimentarne tutti i servizi e l’immenso parco con le fontane e i giochi d’acqua. Il sovrano aveva chiesto acqua anche per la città di Caserta e per l’intero circondario, che si sarebbe sviluppato con la realizzazione del palazzo reale, e possibilmente anche per la capitale, giacchè la dotazione idrica di Napoli era rimasta insufficiente pure dopo la costruzione del seicentesco acquedotto del Carmignano.
Le sorgenti sul Taburno
L’architetto, forte della sua solida preparazione in ingegneria idraulica, aveva accettato, consapevole che gli era richiesta un’impresa ardua, già nell’identificazione di una sorgente in grado di fornire tanta acqua e considerato che non ve ne erano nei dintorni del sito reale. La ricerca lo portò sui monti del Sannio, dove aveva già trovato materiali utili per la fabbrica regia. In particolare, fu il Taburno a offrirgli la soluzione. Nel territorio di Airola, nel casale di Bucciano, identificò delle ricche polle di acqua sorgiva che garantivano la portata necessaria: Fizzo, Bronzo, Duca, Molinise. Appartenevano tutte al principe della Riccia, che non esitò a donarle al re per dare acqua a Caserta e a Napoli. Così Vanvitelli le fece collegare grazie a due collettori, chiamati Carcarella e Ficucella, che poi furono immessi in un unico condotto. Ma era solo l’inizio di un percorso che i matematici di corte giudicarono subito impossibile: troppo distante era la sorgente e troppo accidentato il percorso tra monti e valli perché quell’acqua potesse arrivare fino alla reggia in costruzione.
Nessuno riuscì, tuttavia, a far desistere l’architetto, che mise in campo tutte le sue conoscenze tecniche insieme a una straordinaria determinazione. Con l’aiuto delle abili maestranze di cui si serviva a Caserta e ispirandosi agli acquedotti romani, progettò un’opera d’avanguardia per dimensioni e complessità. C’erano da coprire 38 chilometri tra il Fizzo e Caserta, dovendo assicurare lungo tutto il percorso la pendenza necessaria per portare l’acqua dai 254 metri di altezza della sorgente ai 203 del parco della reggia. Per riuscire era necessaria una pendenza minima e costante del 2 per cento, pari a mezzo millimetro per metro. Si sarebbero dovute traforare alcune alture e affrontare terreni di natura diversa, in certi punti compatti in altri incoerenti. Sarebbero stati necessari anche tre ponti, che fece uno diverso dall’altro.
I ponti
Il primo si rese necessario, poco oltre le sorgenti, per superare il fiume che allora si chiamava Faenza e oggi Isclero, tra i territori di Bucciano e Moiano. Una struttura in tufo, con quattro arcate, per una larghezza di 130 metri e un’altezza massima di sei, perfettamente inserito nel contesto naturale ricco di vegetazione sulle due sponde del fiume. L’architetto lo battezzò Ponte Nuovo, ma è conosciuto anche come Ponte Carlo III. D’altra parte, il re in persona con la regina Amalia parteciparono alla cerimonia di posa della prima pietra, a sottolineare l’importanza dell’acquedotto. E due lapidi marmoree uguali, poste sui due lati dell’arco centrale, rendono omaggio ai sovrani con l’indicazione dell’anno 1753, quando iniziarono i lavori. L’anno dopo il re concesse ad Airola il titolo di città.
La condotta era interrata per gran parte del suo percorso e per rispettare la pendenza furono traforati diversi monti. Raggiunta la gola di Tagliola in cui scorre il torrente Martorana, si impose la costruzione di un secondo ponte tra Durazzano e Sant’Agata de’ Goti. Lungo 60 metri, con quattro arcate a tutto sesto di cui la più alta raggiunge i 16 metri, il Ponte della Valle di Durazzano fu realizzato nel 1760, primo anno di regno di Ferdinando, succeduto al padre Carlo, salito sul trono di Spagna. Nei pressi di quel secondo ponte si svolse nel 1762 la cerimonia della “prova dell’acqua” alla presenza del giovanissimo re. Ma l’impresa era ancora lungi dall’essere conclusa.
Mancava un’altra grande prova, la più impegnativa e imponente, per realizzare la struttura più bella e rappresentativa dell’Acquedotto Carolino: i Ponti della Valle di Maddaloni. C’era da superare la valle tra il monte Longano a est e Garzano a ovest, per una lunghezza di 529 metri. Il Longano fu traforato, come le altre alture, facendo largo uso di polvere da sparo, per il Garzano ci vollero tre anni. Ma uno straordinario impegno richiese la costruzione del ponte di tufo alto quasi 60 metri, con tre ordini di archi a tutto sesto sorretti da 44 piloni a pianta quadrata. All’epoca il più lungo ponte d’Europa, sulla cui sommità, che consentiva il passaggio della condotta, era stata realizzata anche una strada carrozzabile in pietra.
Alla base del ponte, tra le opere più importanti dei Borbone, nel 1899 fu collocato il monumento con l’ossario dei soldati caduti il primo ottobre 1860 nella valle, dove si svolse uno scontro tra garibaldini e truppe realiste, nell’ambito della battaglia del Volturno, che segnò la definitiva sconfitta e la caduta dello stato borbonico.
L’acqua per la reggia
Dopo la “prova dell’acqua” con cui Vanvitelli aveva dimostrato la fattibilità del suo progetto, ci vollero altri otto anni per portarlo a compimento. Si lavorò con grande intensità, metro dopo metro, per l’installazione della condotta di ferro, larga 1.2 metri e alta 1.3, prodotta nelle Regie Ferriere di Stilo, che Vanvitelli aveva aperto apposta per lavorare il minerale proveniente dalle miniere calabre di Pazzano e Bivongi. Come convenuto con re Carlo non si badò a spese: l’acquedotto venne a costare 622.424 ducati, sui sei milioni complessivi del costo della reggia. L’impresa richiese grande impiego di manodopera e, date le difficoltà dei lavori, fu funestata anche da diversi incidenti, alcuni perfino mortali.
Lungo tutto il percorso dell’acquedotto, nei prevalenti tratti in cui era sotterrato, furono costruiti 67 torrini a pianta quadrata e copertura piramidale, come sfiatatoi e per consentire le ispezioni periodiche.
Il punto di arrivo dell’acquedotto alla reggia fu ai piedi del monte Briano, dove attivò la cascata da cui parte la via d’acqua che attraversa il parco per circa tre chilometri. Il momento solenne e tanto atteso dell’inaugurazione della cascata fu dipinto da Antonio Joli nel 1778. E segnò un doppio successo di Vanvitelli che, portata a buon fine l’impresa dell’acquedotto, di risonanza europea, concretizzò anche parte del progetto del parco della reggia, poi completato dal figlio Carlo Vanvitelli.
L’acqua del Taburno fa vivere il piccolo lago, le vasche, le cascatelle, tiene verdi i prati e, soprattutto, dà voce alle fontane dell’immenso parco della Versailles italiana. La Fontana dei tre Delfini, con una scenografica grotta, disegnata da Carlo Vanvitelli e costruita da Gaetano Salomone. La Fontana di Eolo, con 28 statue delle oltre 50 progettate e un emiciclo ad arco da cui esce una coscatella, che si può considerare un’incompiuta. La Fontana di Cerere, di Salomone, in travertino e marmo di Carrara con ninfe, tritoni e amorini. La Fontana di Venere e Adone con il suo gruppo scultoreo in marmo di Carrara. E la Fontana di Diana e Atteone, alla fine del parco, opera di Paolo Persico, Pietro Solari e Angelo Brunelli, che evoca l’antico culto di Diana Tifatina diffuso nella Campania felix. Tra i gruppi scultorei, scende fragorosamente per 82 metri la grande cascata, il trionfo dell’acqua giunta da lontano. E dalla grotta artificiale si apre la vista da Caserta a Napoli, grazie all’”effetto cannocchiale” praticato dal geniale Luigi Vanvitelli.
La “sua” acqua, oltre a irrorare il parco della reggia con le sue opere d’arte, prima di raggiungere Napoli, ha servito le altre Reali Delizie dei dintorni, San Leucio e Carditello su tutte, e poi i mulini sorti numerosi lungo il corso dell’acquedotto e perfino delle coltivazioni sperimentali di alberi da frutto tropicali impiantate vicino alla reggia.
Dal 1997 l’Acquedotto Carolino è nell’elenco dei Siti Unesco Patrimonio dell’Umanità.
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