Da tempo nessuno più si curava di loro.
Eppure, i colossi verdi, antichi e generosi, non avevano smesso di dare frutti. La terra buona, l’esposizione favorevole al sole, la vicinanza del mare e l’acqua del cielo li avevano mantenuti in salute, nonostante tutto.
E da soli avevano continuato a servire la bellezza struggente di scorci incontaminati e dimenticati dell’isola tanto celebrata. Finché qualcuno non era tornato a ricordarsi anche di loro, dei grandi ulivi ultracentenari nei terreni costieri di Anacapri, che in passato davano raccolti abbondanti e grandi quantitativi di olio alle famiglie impegnate a coltivarli sfidando l’impervietà dei luoghi.
Quell’epoca lontana è testimoniata ancora dalla memoria dei più anziani. Che raccontano dei dieci frantoi dove le olive, raccolte in tanti terreni dell’isola ancora dedita all’agricoltura, si trasformavano in migliaia di litri di olio. Usato anche per accendere le lampade, una vera ricchezza per la gente del posto. Prima che tutto cambiasse, che i frantoi fossero chiusi e che gli uliveti lasciassero spazio ad altro, a parte quelli più marginali e difficili, affacciati sul mare. Dove, invece, il tempo si era fermato e le olive avevano continuato a crescere e a cadere, inutilmente, al suolo in autunno, tra le erbe selvatiche libere di crescere e di moltiplicarsi.
Un progetto comunitario
Solo pochi anni fa, qualcuno era tornato ad accorgersi di quei terreni anacapresi. E di quegli ulivi in buona salute, che meritavano di non restare abbandonati. «È stato Gianfranco D’Amato il primo a crederci, quattro-cinque anni fa. E ci ha poi coinvolti uno a uno, noi che avevamo i terreni con gli ulivi, in un progetto che riguarda gli uliveti e il territorio tutt’intorno.
E ora siamo una quarantina, alle prese con un progetto di produzione biologica di olio che ci ha appassionato, per il quale stiamo imparando e ci stiamo aggiornando tutti insieme, sotto la guida di validi professionisti».
Per lui, Vincenzo Torelli (in foto), titolare del bar ristorante Columbus ai piedi del monte Solaro, è una nuova avventura da cui si è lasciato conquistare, come rivelano l’entusiasmo e l’orgoglio con cui la racconta.
Come produttori di vino, sono dovuti ripartire da zero, ad Anacapri. Ma, forse, proprio l’aver dovuto affrontare questo impegno senza competenze specifiche, è stato lo stimolo per fare sempre di più e sempre meglio, tutti insieme. Sotto la direzione dell’agronomo, che ha impostato il recupero degli uliveti, hanno avviato la nuova epoca di produzione di olio extravergine biologico: l’Oro verde di Capri, lo hanno chiamato. «Stiamo procedendo per gradi, anno dopo anno - spiega Vincenzo, che ha rimesso in produzione l’antico uliveto di famiglia – Progrediamo insieme, reinvestendo tutti gli utili nello sviluppo del progetto e condividendo idee, informazioni, esperimenti e attrezzature, insieme alle competenze che acquisiamo singolarmente. Dalla scoperta dei lieviti americani alle pratiche di lotta alla mosca, all’acquisto della scuotitrice delicata per la raccolta, che ci scambiamo a seconda delle necessità. E poi abbiamo dovuto individuare un frantoio, non essendocene più a Capri. Quello adatto al nostro progetto lo abbiamo trovato a Massa Lubrense: portiamo le olive di sera, subito dopo la raccolta, e la molitura avviene in giornata, come volevamo. Ma puntiamo ad avere di nuovo un frantoio nostro».
Obiettivo qualità
Il progetto/sogno collettivo persegue dall’inizio l’obiettivo della qualità. «In passato, contava la quantità – ci tiene a sottolineare Vincenzo – Noi, invece, abbiamo una produzione molto limitata, perché abbiamo scelto di fare un discorso di grande qualità e seguiamo un disciplinare rigoroso. Grazie a questo, in pochi anni abbiamo già otto olii riconosciuti, di cui quattro sono presidio Slow Food e uno è citato sulla guida del Gambero Rosso». E si valorizzano anche le peculiarità delle diverse produzioni, «perché l’olio rappresenta il territorio e in ogni terreno acquisisce caratteristiche particolari a seconda dell’esposizione, che fa maturare prima o dopo i frutti, per esempio».
Se è un’esperienza collettiva la produzione, l’intero progetto dell’Oro verde di Capri ha assunto fin dall’inizio una forte connotazione sociale. Già la raccolta annuale delle olive è diventata un rito comunitario, condiviso da intere famiglie e dalle diverse generazioni. Ma poi ne sono scaturite diverse iniziative di valorizzazione della genuinità e salubrità del prodotto: la merenda con pane e olio per i bambini delle scuole, per educarli ad una sana alimentazione, e da qualche mese il regalo dell’olio alle mamme per lo svezzamento dei neonati.
Di pari passo procede, però, anche l’uso dell’olio per altre produzioni particolari, come il gelato “cioccolio” dolce e salato e le creme di bellezza. Senza dimenticare la versione con l’olio di casa della famosa “caprese”. Ma lo sviluppo del progetto Oro verde è il presupposto per il recupero degli uliveti antichi e dei terreni incolti. Dunque, è diventato anche un fattore determinante per la tutela del paesaggio e per la salvaguardia ambientale del territorio isolano. Gli ulivi hanno fatto da apripista ad un processo più ampio e articolato di riconversione ecologica. Come il ritorno dei carrubi, prediletti dagli uccelli che tengono sotto controllo le popolazioni di insetti negli uliveti, o l’impianto nei terreni di vasche con l’acqua per gli uccelli migratori.
Alla fine, un modo per ripensare il rapporto con il territorio in un’ottica di sostenibilità, che è anche garanzia per il futuro dei giovani. Alcuni hanno già iniziato a prendersi cura di altri uliveti abbandonati. E gli ulivi della zona del Pino dei Monaci, con i loro quattro secoli di vita, salutano la svolta ormai inarrestabile dell’Oro verde.
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