Il suo vero nome non lo sapremo mai. Ma quattro lettere in alfabeto calcidese, scritto da destra verso sinistra, sono state sufficienti a risparmiargli l’anonimato comune alla maggioranza dei suoi colleghi. C’è l’ha fatta, Inos, a sconfiggere l’oblio.
E il tempo. E’ bastato un frammento del cratere su cui ventotto secoli fa dipinse una frase inequivocabile: “...Inos m’epòiese – Inos mi fece”. Quella firma, apposta alla fine dell’VIII secolo a.C., è la più antica di un artigiano giunta fino a noi. Per raccontarci la storia di un oggetto di uso quotidiano ritrovato sulla collina di Mazzola, nell’odierna Lacco Ameno, zona residenziale e di officine metallurgiche dell’antica Pithecusa.
A poche decine di metri, in linea d’aria, dal più costiero “keramèikos”, il quartiere dei vasai scoperto dalla metà del secolo scorso nell’area archeologica sotto la basilica di Santa Restituta, dove anche Inos modellava e decorava la creta locale.
A Pithecusa, i primi coloni giunti da Eubea avevano trovato condizioni ideali per insediarsi. Tra le quali una grande disponibilità di argilla , di acqua dolce e di legna da ardere, l’ideale per loro, che nella grande isola d’origine avevano una lunga tradizione di produzione della ceramica.
Ripresa anche nella nuova terra, dove si erano portati uno strumento d’avanguardia per le lavorazioni del tempo, il tornio, di cui avrebbero trasmesso la tecnologia agli Etruschi e alle altre popolazioni italiche.
Dai primi anni della colonia e ininterrottamente fino all’età ellenistica, il keramèikos nel centro di Pithecusa rimase attivo, tanto che Plinio il Vecchio fa risalire proprio ai “pithoi”, i vasi, il nome greco dell’isola. I forni per la cottura funzionavano a pieno ritmo. L’assortimento era ampio: oggetti di uso domestico, religioso e commerciale, materiali da costruzione, giochi per bambini e qualche pezzo unico di particolare valore. Le forme e le decorazioni recepivano, reinterpretandole in modo originale, quelle di volta in volta di tendenza sia in Grecia che nei principali centri produttivi del Mediterraneo. Dove venivano poi largamente esportate anche le ceramiche pithecusane, protagoniste degli intensi rapporti commerciali intrattenuti dai naviganti locali con le popolazioni rivierasche tra oriente e occidente, non trascurando la Grecia.
Quei forni di diversa epoca, giunti intatti ai nostri giorni, con un vasto corredo di reperti e di scarti di lavorazione, hanno consentito di ricostruire le tecniche produttive arcaiche e di studiare la materia prima locale. E di riconoscere i bolli, i marchi di fabbrica dell’antichità, attraverso i quali è possibile ricomporre il quadro della diffusione dei prodotti “made in Pithecusa” nel Mediterraneo. Soprattutto grandi anfore, che non partivano sempre vuote. Grazie al bollo ZO-ZOEROS è stata attribuita ad una fabbrica pithecusana del III secolo a.C. un’anfora piena di vino rosso isolano, imbarcata su una nave in rotta per il nord- Africa e affondata al largo di Filicudi.
La decadenza di Pithecusa non segnò la fine della produzione figulina, che caratterizzò ininterrottamente l’isola anche nelle epoche successive. Unico territorio nel golfo di Napoli con la disponibilità di grandI depositi di argilla, gli abitanti continuarono a sfruttare le ricche cave nella fascia collinare intorno all’Epomeo. Come quelle del Cretaio, da cui si rifornivano le numerose fabbriche insediate lungo la costa tra Casamicciola e Lacco, ancora prima che quei “casali” si chiamassero così. Un tratto di litorale che il mare ha progressivamente inghiottito, insieme alle botteghe dei vasai medievali e delle epoche più recenti, eredi fedeli delle lavorazioni elaborate dagli antenati pithecusani.
Per secoli, anche dal mare, furono visibili le colonne di fumo che s’innalzavano giorno e notte a settentrione, per cuocere gli oggetti di uso domestico, insieme ai mattoni, alle tegole e agli altri prodotti per l’edilizia. Che gli artefici isolani continuavano a firmare.
Era il 1584 quando 154.000 mattoni dalla fabbrica di Giovanni Giacomo Loyse furono imbarcati da Casamicciola alla volta della capitale, per la costruzione del nuovo arsenale partenopeo. A distinguerli era la qualità della lavorazione e dell’argilla vulcanica dell’isola, che una volta cotta assumeva una inconfondibile tonalità di rosso. Perciò anche l’argilla veniva esportata in terraferma con apposite barche.
Famosa per le sue “crete cotte” ancora prima di diventarlo in Europa per le sue acque termali, con lo sviluppo turistico del secolo scorso Casamicciola non rinunciò alla sua tradizione figulina. Al posto delle lavorazioni in serie per l’edilizia, le nuove fabbriche aperte al sicuro dal mare si dedicarono a produrre oggetti finemente decorati per i forestieri. Nuove forme, nuovi disegni, nuovi colori.Nuovi forni. Ma le tecniche della lavorazione a mano restano quelle dei pithecusani. Acqua e argilla. Tornio e creatività. Da ventinove secoli, da Pithecusa a Ischia, continua a vivere l’isola dei vasai.
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